“I colori della piena solarità, dei tramonti e dei caldi crepuscoli; il chiarore del cielo che si apre un varco tra le ombre della vegetazione; il brillio delle foglie; i fiori che risplendono come punti luminosi tra le erbe scure; i muri gialli della villa padana che fanno spicco tra il fogliame del bosco, esprimono la malinconica vittoria senza trionfi di una luce intramondana: pur sapendo che dovremo separarci dai luminosi giardini della terra, tuttavia non possiamo non amare questa nostra luce effimera.”
Queste parole le ho scritte molti anni fa, nel 1992, in: Una poetica per l’acquerello. Ad distanza di più di vent’anni di tempo, le riscriverei tali e quali: continua in me, ostinato e indelebile, il senso di questa “malinconica vittoria senza trionfi” della luce.
L’iride è la parte del nostro corpo che più assomiglia al sole e in greco significa “arcobaleno”, simbolo del ritorno della luce e della sua rifrazione.
A suggello di questo perdurare del mio modo di concepire la vita e del non avere mai concepito l’arte come vacua sperimentazione del nuovo, cito il pensiero di un grande artista, Egon Schiele: “L’arte non può essere moderna. L’arte è eterna e originaria”.